Capitolo 1.
Questa è la storia di una donna che un tempo conoscevo.
Era il lontano ottobre del 2019.
Ricordo che le piaceva sorridere agli sconosciuti, anche quando non era ricambiata. Di lei ciò che posso dire con certezza è che era tanto sorridente con gli altri, quanto poco lo era con se stessa.
Era sempre stata estremamente logica, incotrollabilmente razionale. Come in una partita a scacchi, ogni sua mossa sulla tavola della vita veniva minuziosamente vivisezionata dalla sua mente. Ogni passo era misurato, ogni esito soppesato, ogni conseguenza chirurgicamente analizzata.
Si perdeva spesso nei ricordi del passato, senza forse sapere che quella era una forma di escapismo. Tuttavia, le piaceva ricordare, con un po’ di malinconia, le sciocchezze che aveva commesso in gioventù, le battute e i giochi di parole che aveva condiviso con gli amici per far comparire risate sui loro volti.
Ma lei era convinta, testardamente convinta, che quell’ironia non le sarebbe servita a nulla nella vita e così, a poco a poco, quell’ironia di gioventù sfumò e si trasformò in adulto cinismo e acido sarcasmo.
Mi raccontò di un evento che le cambiò la vita, o almeno, così mi disse.
Il senso del dovere, il fastidio di sentirsi inutile e il bisogno di guadagnarsi la pagnotta, ora che aveva anche un figlio, la portarono a svolgere l’ennesimo lavoro per cui aveva le competenze ma non la vocazione. Ma a lei piacevano i nuovi inizi, e si buttò anima e corpo, cercando di dare il meglio.
Ma, così mi raccontò, le sveglie al buio senza poter dare un bacio al suo bambino, le pause pranzo solitarie, il ritorno al buio a casa la sera iniziarono lentamente a farle perdere motivazione ed energia.
Ferma ai semafori cittadini, osservava la città muoversi attorno a lei con una sensazione familiare nelle ossa: la gioia di vivere la stava abbandonando, di nuovo.
Eh sì, perché questa donna che un tempo conoscevo, aveva già sentito il gusto amaro della depressione della mente, dell’aridità nel cuore e della debolezza del corpo.
Mi raccontò di aver provato paura, perché sentiva di nuovo quelle sensazioni riaffiorare, ma in quel momento della sua vita non avrebbe più potuto permettere che il buio che l’aveva risucchiata un tempo la risucchiasse di nuovo. Ora aveva una famiglia e non poteva pensare di farsi vedere in quelle condizioni dal suo bambino.
Mi raccontò che sua madre, che aveva già compreso tutto, un freddo sabato mattina le propose di andare insieme a muovere il corpo e fare un piccolo esercizio di meditazione. Le avrebbe fatto bene visto il lavoro sedentario. Perché non tentare, si disse.
Mi raccontò della strana sensazione che provò nel sentire gli ischi poggiare sul pavimento, nel percepire la durezza degli arti, nel rendersi conto di quanto il suo corpo le sembrasse estraneo.
Ma ciò che la colpì di più, o così mi disse, fu il momento della meditazione. Non aveva mai provato, non sapeva bene cosa…non sapeva nulla.
Poi capì. Era bello, era semplice. Una volta chiusi gli occhi, veniva guidata da una voce esterna a ripercorrere il suo corpo, da dentro. Il respiro si era fatto lento, calmo e tutto l’affanno che era entrato con lei nella stanza era svanito.
Scoprì con stupore che quando la sua attenzione si focalizzava sul ginocchio destro, il resto del corpo spariva. Quando spostava l’attenzione al gomito sinistro, il resto del corpo svaniva.
Il viaggio la incuriosiva, non provava nulla di particolare, se non curiosità . Dove l’avrebbe portata quel viaggio immaginativo?
Dal busto salì verso il petto, poi la gola, poi il volto e infine, la testa.
Mi raccontò di essersi ritrovata nella sua testa e di essere stata consapevole di trovarsi lì.
Fu ciò che vide che per lei fu uno shock.
Si trovava in una stanza di forma circolare, tutto era avvolto dall’oscurità , tutto era silenzio. Nella penombra intravedeva cinque porte, erano grigie, erano di metallo, erano fredde.
Mi raccontò di aver vinto lo shock iniziale, di aver preso coraggio e di essersi avvicinata alla prima con titubanza. Provò a girare il pomello della prima porta, non si aprì.
Ma lei non si scoraggiò e tentò di aprire la seconda, nulla.
Sentiva l’ansia che iniziava ad affiorare, sentiva il battito del cuore farsi pressante mentre tentava invano di aprire la terza porta.
Si gettò sulla quarta e poi sulla quinta porta con foga e smarrimento, e dopo che anche l’ultimo tentativo fallì, iniziò a guardarsi intorno con l’unica emozione che le era rimasta: la disperazione.
Era prigioniera. Ma di cosa? Di chi? Lei era nella sua mente, il suo corpo era libero, di cosa era prigioniera?
Poi capì. Era prigioniera della sua mente, nella sua mente.
Non poteva entrare, non poteva uscire.
Era imprigionata in se stessa.
Con un senso di nausea riaprì gli occhi, era di nuovo libera, era fuori…ma lo era veramente?
Mi raccontò di essere uscita da quell’esperienza decisamente scossa e subito dopo decise, davanti a un caffè fumante, di raccontare a sua madre ciò che aveva visto, ciò che aveva vissuto.
Mi raccontò che portare fuori le parole per descrivere l’accaduto le fece ancora più male, si sentiva sull’orlo di un tracollo, o forse di un precipizio. Era come se raccontare fosse rivivere, il suo corpo provava le stesse sensazioni, l’ansia riaffiorava, il battito accelerava.
Era di nuovo lì, nella stanza. Forse, non ne era mai uscita veramente.
Le parole le si frantumavano in gola mentre le lacrime iniziavano a scendere. E con una sensazione di orribile fine nel cuore, riuscì solo a dire a sua madre: “io voglio aiutare gli altri”.
Ciò che quella donna che un tempo conoscevo non aveva ancora compreso era che quello era l’inizio del suo viaggio.
Un viaggio che le avrebbe imposto di tornare in quella stanza e trovare, ad ogni costo, la chiave per uscire.
Ciò che quella donna che un tempo conoscevo non aveva ancora compreso era che non sarebbe stato importante quale porta si sarebbe aperta, ciò che era davvero importante era riuscire ad aprirne una.
Perché, qualunque fosse, sarebbe stata quella giusta perché sarebbe stata la porta della sua libertà .
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Valentina Bruzzese
Ambasciatrice di Idee
www.germogliluminosi.it